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Pizzaballa, l’asso di coppe: “La mia Atalanta dei pionieri in Europa”

“Eravamo in Europa allora come lo sono oggi i ragazzi di Gasperini, ma noi non pensavamo al risultato e giocavamo con lo spirito delle partite all’oratorio”. Pierluigi Pizzaballa, eroe di Coppa delle Coppe nel tris con spareggio con lo Sporting Lisbona nel ’63, si cimenta nel confronto tra la sua Atalanta pioniera delle competizioni continentali e quella di oggi.

Un calcio lontano parente del suo.
“Noi non avevamo la pressione del risultato, oggi lo sport in genere è più speculativo, proprio nel senso degli interessi economici. Gli sponsor non c’erano, passare il turno non comportava chissà cosa. I nerazzurri di adesso, a parte tutto, stanno facendo qualcosa di straordinario”.

Voi non avevate la rosa allargata.
“Purtroppo nemmeno le sostituzioni. Nel ritorno a Lisbona uscii per prendere la palla e mi arrivarono addosso in quattro: lussazione del gomito sinistro e in porta in quel match andò Calvanese, un attaccante. In dieci perdemmo 3-1 dopo il 2-0 per noi a Bergamo, a Barcellona finì sempre 3-1 per loro. E toccò a Cometti. Su sedici-diciotto calciatori a disposizione ne giocavano in undici-dodici”.

Inutile chiedere se ieri fosse meglio di oggi.
“È proprio un altro calcio. Intendiamoci, l’essenza del gioco è la stessa: vai in campo e vuoi vincere. Gli interessi economici e gli sponsor hanno determinato anche un’organizzazione e una strutturazione su cui le società di allora non potevano contare. Il movimento è andato avanti e anche l’Atalanta è al passo coi tempi”.

Atalanta, Roma, Verona, Milan e ancora Atalanta: una parabola da professionista che oggi le ha fruttato il premio del Panathlon di Bergamo nella giornata mondiale del fair play.
“Mi porterò nel cuore anche la riproduzione della medaglia olimpica al Sestriere nel ’97 di Lara Magoni: io potei cominciare a sciare solo a 40 anni, dopo aver appeso le scarpe al chiodo. L’educazione è importante, il rispetto pure. Ai giovani mancano più gli istruttori disposti a insegnar loro l’una e l’altro che la voglia di apprendere e di mettere in pratica certi principi. Quanto a me, ho iniziato con il presidente Turani e il dirigente Tentorio tornando per chiudere la carriera coi Bortolotti. Oggi c’è più possibilità di programmare, il calcio ha indubbiamente più disponibilità economiche”.

Lei fu azzurro per un giorno.
“Da cambio del titolare, contro l’Austria, prima del Mondiale inglese del ‘66 in cui fummo buttati fuori dalla Corea del Nord. Sempre meglio andarci e giocarsela che rimanere fuori come l’Italia di adesso. Quello che mi pare sempre uguale sono le polemiche. All’epoca però ci fu la rottura netta con la stampa. Il ct Fabbri si basava sul blocco del Bologna con Bulgarelli e gli altri, tranne Negri che s’infortunò: allora le riserve non andavano nemmeno in panchina, quindi giocò Albertosi e Anzolin e io restammo a guardare”.

Il sistema è in crisi?
“Non vedo ricambio, nemmeno nei portieri. Io nel ’64 vinsi il Premio Combi e giocai una sola partita in azzurro. Ci si poteva arrivare con fatica, a prezzo di grandi sacrifici e col rendimento sul campo. Oggi dietro Buffon che ha 39 anni chi c’è?”.

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